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Più lontano di così
Lo strano caso di Far Out e del permafrost bucato


di Marco Denti

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Senza nulla togliere alla lunghissima storia dei Mandolin’ Brothers e al brillante presente rappresentato da Far Out, quando uscì Still Got Dreams, cinque anni fa, sembrava fossero arrivati a un punto di non ritorno, lo zenith dell’espressione delle passioni e delle conoscenze maturate nei territori perduti del rock’n’roll. Anzi, era proprio così perchè Still Got Dreams ha segnato una tappa importante nell’appropriazione di quei linguaggi, di quelle sfumature, di quel sogno. Anche quello che è venuto dopo Still Got Dreams, appariva più come una celebrazione (30 Lives!) o una coda (Moon Road) di quell’ispiratissimo momento. La qualità era la stessa, non c’è discussione, però sembrava che non ci fosse alternativa. Invece, e lo si scopre proprio con Far Out, quelli erano segnali che i Mandolin’ Brothers lasciavano mentre si inventavano una nuova realtà, ovvero uno scrupoloso percorso di avvicinamento a quello che sarebbero diventati. Un pezzo qui, un pezzo lì e piano piano il puzzle ha preso forma. È inevitabile accorgersi che in Far Out c’è un pò di tutto quel procedere per tentativi ed è evidente che un esperimento dopo l’altro, e in particolare gli sforzi compositivi di Moon Road, li hanno spinti verso ambizioni e orizzonti nuovi e diversi. A partire proprio da Still Got Dreams, che ormai hanno abbandonato al suo (onorevole) destino. L’inizio di Far Out sembra proprio un omaggio a quei Mandolin’ Brothers: il Freak Out Train che ha il compito di inaugurare il lungo viaggio scorrazza su un paio di lucidissimi binari dylaniani ed è il vero e definitivo saluto a Still Got Dreams. Poteva stare benissimo alla fine di quel disco, così come sta alla perfezione in apertura a questo, con quel rincorrersi delle chitarre su un tema sempre a un passo dal deragliare. Quell’equilibrio precario e/o raffinato, dipende dai punti di vista, che rendeva affascinante Still Got Dreams, in Far Out viene risolto da una rock’n’roll band molto più consapevole, almeno in apparenza, e da un sound più energico, volitivo, trascinante al livello epidermico. La nuova frontiera dei Mandolin’ Brothers appare con Come On Linda, un poderoso rock’n’roll che viene dall’heartland, qualcosa che sta tra lo Steve Earle di Copperhead Road e il John Mellencamp di sempre, e dove cantano un po’ tutti, perchè stiamo parlando di un gruppo che ha raggiunto una rara forma di democrazia, tanto improbabile quanto efficace nel pescare tra le migliori qualità dei vari ospiti e componenti. È così che a Riccardo Maccabruni, richiestissimo tastierista e fisarmonicista, viene concessa più di un’occasione per mettere a disposizione anche il suo talento di songwriter. La prima è Someone Else, dove le chitarre di Paolo Canevari e Marco Rovino, peraltro eccellenti protagoniste nell’arco di tutte le canzoni di Far Out, lo aiutano a confezionare un bizzarro miscuglio tra i Faces e una certa California di molti anni fa, dove dietro melodie sfavillanti si nascondevano complicate storie di armi, soldi e avvocati. Inutile dire che avremmo voluto che la coda del pianoforte (e di tutto il resto) durasse almeno un quarto d’ora in più. L’avranno sfumata per fare posto a quel gioiello con cui Cindy Cashdollar (una che ha suonato con Bob Dylan e Dave Alvin, è abbastanza?) incornicia Circus, volendo l’ultimo tentativo di ricollegarsi alla natura elettroacustica di Still Got Dreams, anche se arrivati a questo punto le differenze cominciano a essere palpabili. Anche perchè tra Nightmare In Alamo e Ask The Devil matura la svolta di Far Out: entrambe sono giocate sull’interplay delle chitarre, che è un pò il marchio di fabbrica e l’essenza dello stile dei Mandolin’ Brothers e se non manca il richiamo alle origini e alle radici blues, a cui si sono applicati per tutta la loro storia, bisogna dire che non è raro scoprire, tra una canzone e l’altra, qualcosa di più moderno e scintillante, magari solo un effetto o una piccola lucidatura alla carrozzeria. Niente di importante, se non per il fatto che certe scintille introducono allo snodo centrale di Far Out. In Sorry If, ci raccontano la storia della nostra vita, e condensare in una canzone una specie di autobiografia del rock’n’roll, e scusate (scusate anche il gioco di parole), non è una roba da poco. È un lavoro fatto in casa, ma fatto bene, a cui si presta anche l’armonica di John Popper (non uno qualsiasi). Bisogna dire poi che Sorry If si duplica in Bad Liver Blues che è una specie di riflesso, il negativo di una fotografia che indica anche la fine del primo tempo del film. Intanto, se un danno va fatto, l’unico rimedio è accompagnarlo con qualcosa di buono, forte e giusto, poi si vedrà. La parte conclusiva di Far Out è l’espressione più concreta, più laboriosa dello sforzo compiuto dai Mandolin’ Brothers, che è poi il paradosso di tutte le rock’n’roll band, quello di cambiare pelle come i serpenti restando sempre se stessi o di andare lontano senza spostarsi così tanto dal proprio giradischi. Verrebbe da dire che i Mandolin’ Brothers sono più elettrici del solito perchè i brani da Sorry If e Bad Liver Blues in poi virano in direzione che è più Tom Petty che un same old blues ma è soltanto uno degli aspetti che la produzione di Jono Manson, un piccolo principe del rock’n’roll, ha evidenziato senza snaturarne in alcun modo l’identità. Uno dei primi lavori che deve aver fatto (ma è qualcosa in più di un’ipotesi) è stato rendere più corposa la sezione ritmica di Daniele Negro alla batteria e Joe Barreca al basso senza perdere in feeling, in swing e in leggerezza. E andando giù duro, quando bisogna pestare. Il secondo è rendere americani i Mandolin’ Brothers facendoli suonare come sanno fare, magari aggiustando qualcosa, mettendoci una chitarra in più (che non guasta mai) o sfiorando quel tanto che serve i potenziometri del mixer. Chi non lo vorrebbe un produttore come Jono Manson? È così che i Mandolin’ Brothers passano senza soluzione di continuità da Short Long Story a Lotus Eaters, canzoni che ricordano persino i R.E.M. o i Whiskeytown o i primissimi Wilco fino al massiccio attacco di Black Oil. Piccolo inciso per una deviazione eccentrica (ma neanche tanto) un pò come avrebbe fatto David Foster Wallace se avesse dovuto spiegare Black Oil: da qualche parte del mondo, ovvero nella costruzione della ferrovia che collega il Tibet alla Cina, alias la linea ferroviaria Pechino-Lhasa, nota anche con il nome di Linea del Qinghai-Tibet ovvero Treno del Cielo o Tibet Express. Quello, sì, che è un Freak Out Train e siamo sicuri che Jimmy Ragazzon apprezzerà i dettagli dall’Estremo Oriente. Gli ingegneri che l’hanno progettato sono dovuti intervenire sul permafrost, lo strato eternamente ghiacciato del terreno, con una lunga e complicata serie di interventi (da pali di cemento scesi in profondità per dozzine e dozzine di metri all’inventarsi strutture rifrangenti per impedire il riscaldamento estivo). Un tentativo palese di modificare la natura, peraltro molto rischioso e già fallimentare perchè le condizioni climatiche nella zona hanno imposto severe modifiche alla struttura e persino alla composizione dei convogli ferroviari. Un’opera artificiale e magniloquente resa ben presto traballante dalla natura precaria e selvaggia della terra. Del resto, come sanno bene i Mandolin’ Brothers, la natura ci fa pagare quello che combiniamo al nostro fegato, figurarsi se non ci toccherà pagare i disastri che combiniamo in nome delle intoccabili esigenze economiche o geopolitiche di sempre. Per dirlo con più chiarezza, Black Oil è ancora quell’intreccio di Steve Earle e John Mellencamp in cui i Mandolin’ Brothers si sono tuffati con convinzione e se in effetti spunta anche un mandolino, d’altra parte con quel nome li non potevano esimersi. Questo per dire che le sfumature tradizionali dei Mandolin’ Brothers sono tutte presenti, ma rinvigorite da un flusso che non sembra nemmeno frutto dei Mandolin’ Brothers, almeno come li conoscevamo fin qui. Questa è la contraddizione, volenti o nolenti, di Far Out. Ed è come la risolvono, lasciando sempre un margine per l’incertezza, la sorpresa, lo stupore. Per dire, se My Last Day è un trionfo della coralità, della coordinazione, dell’eleganza applicata a una rock’n’roll band per cui potremmo dire anche, okay, siamo andati Far Out ma siamo arrivati da qualche parte, ecco che qualcuno dice Hey Senorita, cantami un’altra canzone e vediamo che succede. Arrivati in fondo, i Mandolin’ Brothers scappano in Messico, o da quelle parti lì. Qui bisognerebbe capire se ci ha messo del suo Jono Manson che in effetti non abita molto lontano dal confine, così come va dato atto a Jimmy Ragazzon di averli guidati o confusi al punto giusto, dalle colline pavesi in poi. Se il finale di un disco dovrebbe preannunciare le giravolte prossime venture con tutta questa varietà di fiati e note mariachi e clarinetti che ricordano un’orchestra klezmer abbandonata nel deserto bisogna aspettarsi qualcosa di stralunato visto che nella coda di Hey Senorita il gruppo lascia le chitarre da parte e si dedica a una suite che potrebbe trasformarsi in una polka un pò alticcia o in una colonna sonora di Philip Glass, e nessuno avrebbe da ridire. Sorpresi? Sì, perchè Far Out arriva persino dove non è arrivato Still Got Dreams con un coraggio e un’incoscienza a cui si giunge soltanto quando si diventa giovani, e ci vogliono un sacco di anni per diventare giovani.
Avvertenze per l’uso: Far Out non si può sentire in cuffia o attraverso piccole prestazioni digitali. Anche se non ha un particolare bisogno di alta fedeltà, come nessuno di noi, a Far Out serve l’aria per respirare e di conseguenza va suonato a tutto volume (i vicini se ne faranno una ragione). Non ci sono controindicazioni particolari, magari qualche effetto collaterale è , come dire?, fisiologico: una leggera euforia all’inizio e più avanti un superficiale senso di estraneità al resto del mondo, che comunque se ne va a rotoli con o senza di noi (e tanti saluti anche al permafrost).